venerdì, Maggio 9, 2025
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    Lavoro ibrido: opportunità o rischio per le imprese?

    Lavoro ibrido: opportunità o rischio per le imprese? Nel 2020 la pandemia da Covid-19 ha stravolto ogni equilibrio. Le aziende hanno dovuto reinventarsi e il passaggio al lavoro da remoto è stato spesso una corsa contro il tempo. Oggi si parla di ritorno in ufficio. Ma la vera domanda è se siamo pronti a una nuova normalità sostenibile.

    Scopri cosa manca davvero per rendere il lavoro ibrido un vantaggio competitivo per le piccole imprese!

    Per esplorare le sfide, le opportunità e le contraddizioni di un modello in continua evoluzione, tra flessibilità e sostenibilità, abbiamo parlato con gli ingegneri Sara Falangone e Luigi Antonazzo, rispettivamente titolari dello studio Artetica e dello studio Eco-Pro. Insieme sono co-gestori del coworking Artem, che si trova nel Museo Sigismondo Castromediano di Lecce.

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    Sara Falangone e Luigi Antonazzo
    La pandemia ha rivoluzionato il lavoro. Il ritorno in ufficio è realtà, ma per le Pmi le sfide sono diverse rispetto a quelle delle grandi aziende. Come stanno reagendo?

    «La transizione è ancora in pieno svolgimento e il panorama è molto eterogeneo. Le grandi aziende si stanno attrezzando con piani strutturati, misurano l’impatto del lavoro ibrido con dati e hanno le risorse per ridisegnare spazi, processi e ruoli. Le Pmi e i liberi professionisti, invece, si muovono con maggiore incertezza. Molti hanno gestito l’emergenza Covid con buonsenso, ma senza strumenti strutturati. Oggi si trovano davanti a un bivio, quello di tornare al “come prima” o di investire in un nuovo modo di lavorare. Da gestori di coworking, vediamo Pmi che stanno usando questi spazi per sperimentare soluzioni ibride, team che si incontrano periodicamente, imprenditori che abbandonano l’ufficio tradizionale per una sede più flessibile, aziende che offrono postazioni condivise ai dipendenti che lavorano lontano dalla sede. Tuttavia, non tutte lo fanno con un progetto chiaro. Serve ovviamente una visione, che spesso manca».

    Coworking e soluzioni ibride: la flessibilità ha dei vantaggi. Ma ci sono anche degli svantaggi?

    «Il punto chiave è che la flessibilità non è neutra. È una leva potente, ma può creare squilibri, se non gestita bene. I vantaggi sono noti e concreti, come la maggiore soddisfazione dei lavoratori, il risparmio sui costi di sede, l’aumento della produttività per compiti individuali. Dal punto di vista imprenditoriale si guadagna anche in attrattività, perché i giovani talenti oggi cercano luoghi di lavoro flessibili e “intelligenti”. Non mancano però effetti collaterali. La flessibilità può diventare disorganizzazione se mancano strumenti per la gestione dei progetti, generare isolamento se non ci sono momenti strutturati di incontro, danneggiare la qualità del lavoro se non si costruiscono abitudini e standard condivisi. Nel coworking lo vediamo chiaramente, infatti chi arriva senza una routine o un metodo fatica a essere produttivo. La flessibilità ha bisogno di cornici».

    Oltre agli aspetti pratici, esistono criticità normative da affrontare?

    «Decisamente sì, soprattutto per le piccole imprese e i lavoratori autonomi. Ad esempio, chi lavora da remoto o in coworking ha diritto a tutele in caso di infortunio? Come si misura la presenza? Come si applica il diritto alla disconnessione? Chi deve garantire la sicurezza e l’ergonomia delle postazioni? Queste domande non hanno risposte chiare e mettono imprenditori e collaboratori in una zona grigia».

    Insomma, lo scenario è in evoluzione. Cosa si può fare oggi per gestirlo al meglio?

    «Noi gestiamo la normativa al meglio, attenendoci alle norme edilizie e urbanistiche, come quelle di sicurezza sui luoghi di lavoro e tutte le direttive connesse, e rispettando anche la progettazione degli interni per il confort del lavoratore. Molti coworkers ci chiedono se il datore di lavoro può rimborsare l’abbonamento al coworking e come gestirlo fiscalmente. Le risposte, purtroppo, sono spesso ambigue. Serve un aggiornamento normativo che riconosca la varietà dei luoghi di lavoro di oggi e dia certezze su diritti, doveri, benefici fiscali e previdenziali. Altrimenti, l’innovazione si blocca per paura di fare errori».

    Continuiamo a parlare di coworking: in che modo può rappresentare un’opportunità concreta per le Pmi?

    «Lo vediamo come uno strumento estremamente efficace, ma solo se usato con intelligenza. Il coworking non è unicamente un’alternativa economica all’ufficio tradizionale. È uno spazio di relazione, di contaminazione, di apertura. Per una Pmi può essere un acceleratore culturale, poiché permette ai collaboratori di confrontarsi con altri professionisti, di uscire dalla “bolla” aziendale e di scoprire nuove pratiche. Inoltre, è scalabile, ossia un’azienda può iniziare con due scrivanie e crescere, oppure decentralizzare la propria presenza sul territorio grazie a spazi condivisi in diverse città. Tuttavia, non è una panacea. Non tutte le attività si adattano al coworking e non tutti i coworking offrono la stessa qualità. Va scelto dunque in modo consapevole».

    Cosa si potrebbe fare per supportare le Pmi nella transizione verso il lavoro ibrido e la gestione degli spazi di lavoro?

    «Si potrebbe fare moltissimo. Anzitutto occorre riconoscere che le Pmi non hanno le risorse interne per fare progettazione organizzativa o formazione manageriale avanzata. Quindi servono strumenti agili e accessibili, cioè voucher per l’uso di spazi flessibili, incentivi fiscali per l’acquisto di tecnologie collaborative, sportelli di consulenza per la transizione organizzativa. In secondo luogo, è necessario costruire reti territoriali, intendo che coworking, enti locali, associazioni di categoria potrebbero collaborare per offrire spazi e competenze a basso costo alle piccole realtà. Infine, è cruciale il tema della formazione, in altre parole i titolari delle Pmi dovrebbero imparare a gestire team distribuiti, a delegare, a misurare il lavoro per obiettivi. Senza questo salto culturale, il lavoro ibrido rimane solo una parola di moda».

    Secondo la vostra esperienza, cosa manca e perché non si fa?

    «Manca prima di tutto una visione sistemica. Il lavoro è cambiato, ma le politiche pubbliche, il sistema fiscale, la normativa giuslavoristica sono ancora legate a una visione fordista del lavoro. Manca una rappresentanza efficace delle nuove forme di lavoro, in pratica i freelance, i microimprenditori, le Pmi ibride non hanno voce nei luoghi dove si prendono le decisioni. E manca anche il tempo. Gli imprenditori delle Pmi sono sovraccarichi, spesso sono anche i contabili, i commerciali, i tecnici. Non hanno modo di fermarsi a pensare in modo strategico, se non vengono accompagnati. E quindi restano bloccati, pure quando hanno l’intuizione giusta».

    Il lavoro ibrido rischia di diventare un privilegio per pochi?

    «Sì, è un rischio concreto. Il lavoro ibrido funziona meglio per chi ha ruoli digitali, autonomi e misurabili. Ma nelle Pmi ci sono molti ruoli operativi, front-office, produzione o logistica, che non possono essere svolti da remoto. Questo crea un doppio standard, perché chi lavora da casa appare più “privilegiato”, anche se magari lavora di più e con meno supporto. Per evitare squilibri serve trasparenza, ovvero spiegare perché alcune mansioni sono più flessibili di altre e offrire compensazioni a chi non può accedere al lavoro ibrido, ad esempio maggiore autonomia, benefit o formazione. La flessibilità deve diventare una leva di equità, non una nuova forma di disuguaglianza».

    La cultura aziendale può sopravvivere al lavoro ibrido?

    «Senza dubbio, però solo se viene coltivata attivamente. La cultura aziendale non è il risultato della presenza fisica in un ufficio, bensì della qualità delle relazioni, della chiarezza dei valori, della coerenza tra parole e azioni. Nei coworking vediamo team ibridi molto coesi, però a condizione che ci sia una leadership consapevole e strumenti di relazione ben costruiti. Occorre progettare momenti di incontro sia digitali che fisici, investire in comunicazione interna, creare rituali condivisi (stand-up meeting, demo, feedback ciclici, ndr). Lo spirito di squadra non si improvvisa, ma si costruisce, anche a distanza, con intenzionalità e cura».

    Quali competenze manageriali servono per guidare davvero un team ibrido?

    «Il manager oggi deve essere più coach che capo. Servono competenze relazionali (ascolto, empatia), digitali (uso di strumenti di collaborazione online), organizzative (gestione dei flussi di lavoro distribuiti) e strategiche (definizione di obiettivi chiari e misurabili). Soprattutto, serve la capacità di fidarsi e far crescere l’autonomia del team. Nelle Pmi, dove il titolare è spesso molto coinvolto operativamente, questo è un cambiamento radicale. Senza tale passaggio, il lavoro ibrido resta inefficace, in quanto si lavora a distanza, ma si resta mentalmente dentro un modello gerarchico e presenteista».

    Il lavoro ibrido può diventare un alibi per ridurre costi anziché migliorare il benessere?

    «Purtroppo succede. Alcune imprese hanno tagliato spazi fisici e costi senza reinvestire nulla nel benessere dei lavoratori. Invece il vero lavoro ibrido richiede investimento in strumenti, formazione, onboarding, supporto psicologico. Se usiamo il lavoro da remoto esclusivamente per risparmiare affitti, stiamo solo spostando i costi sull’individuo, in pratica bollette, connessione, isolamento. Questo non è sostenibile. Serve un patto nuovo, vale a dire flessibilità in cambio di fiducia, ma pure di supporto concreto e tutele adeguate».

    Stiamo ragionando davvero sul lungo termine o rispondendo ancora in modalità emergenziale?

    «La maggior parte delle soluzioni viste finora sono emergenziali, in altri termini policy scritte in fretta, strumenti usati “alla buona”, approcci copia-incolla da modelli di grandi aziende. Va compreso che il lavoro ibrido non è un trend passeggero, ma una trasformazione strutturale. Per renderlo sostenibile serve progettazione, tradotto in concreto vuole dire che occorrono obiettivi chiari, Kpi di benessere, ruoli rivisti, investimenti mirati. Come per ogni trasformazione, servono visione, tempo e accompagnamento. E servono luoghi dove condividere buone pratiche, sperimentare, formarsi. Il coworking può essere anche questo: un laboratorio per il lavoro del futuro».

    La transizione verso il lavoro ibrido è una sfida concreta per le Pmi. Le opportunità sono evidenti, ma le difficoltà – normative, organizzative, culturali – non vanno sottovalutate. Per affrontarle servono visione, strumenti adeguati, formazione e un reale supporto da parte delle istituzioni. Solo così le piccole imprese potranno evolversi senza perdere competitività, trasformando una necessità in una leva di crescita.

    di Anna Colazzo

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